Il metodo Miyawaki: ecologia, stratificazione e scoperte personali

Quando mi è stato affidato il compito di supervisionare un giardino ispirato al metodo Miyawaki, ho sentito il bisogno, prima di tutto, di approfondire davvero la visione e i fondamenti di questo botanico giapponese. Avevo sentito parlare del suo approccio innovativo, ma volevo andare oltre la superficie, comprendere le basi scientifiche ed ecologiche che lo sostenevano, e valutarne l'efficacia anche in un contesto mediterraneo.

Il metodo Miyawaki nasce negli anni ’70 e si fonda su studi approfonditi di fitosociologia, cioè sull’osservazione e classificazione delle comunità vegetali spontanee nei diversi ambienti. Ogni piantagione realizzata secondo questo approccio parte da un’analisi attenta del sito e della sua vegetazione potenziale naturale: si identificano le specie che convivono spontaneamente nella zona, le loro alleanze ecologiche, le dinamiche tra piante dominanti, sottobosco, arbusti e tappezzanti.
L’obiettivo non è solo ripiantare alberi, ma ricostruire veri e propri ecosistemi in miniatura, con una grande varietà di specie native, strutturate su più livelli.

Una delle caratteristiche più note (e spesso fraintese) del metodo è l'altissima densità di impianto: in media, si piantano tre individui per metro quadrato, ma non tre alberi, bensì tre piante appartenenti ai diversi strati che compongono un bosco naturale. Questa densità favorisce una forte competizione tra le piante, che accelera la crescita e stimola un equilibrio dinamico. Tuttavia, per avere successo, sono fondamentali alcuni passaggi: la scelta di specie compatibili, l’adattamento al suolo e al clima locale, la preparazione del terreno con ammendanti, e una cura intensiva nei primi tre anni, inclusa la protezione da parassiti e malattie.

Nei suoi scritti, Miyawaki contrappone il proprio metodo a due approcci forestali tradizionali.

Il primo è rappresentato dalle monocolture di conifere o di specie esotiche a crescita rapida, utilizzate per la produzione di legname o altri scopi industriali. Questi impianti, sebbene efficienti sotto il profilo produttivo, risultano ecologicamente fragili: hanno apparati radicali superficiali che li rendono vulnerabili a vento, pioggia intensa, incendi e malattie. Inoltre, in molti casi contribuiscono a una progressiva perdita di biodiversità.

Il secondo approccio è quello delle piantagioni ornamentali, nate dal desiderio estetico di imitare la natura. Miyawaki descrive come, durante l’epoca Edo, i territori imperiali fossero ricoperti da foreste lussureggianti e armoniose, che incarnavano una forma quasi ideale di paesaggio naturale. Queste foreste erano riservate alle élite, ma ben presto anche il popolo iniziò a voler riprodurre quella bellezza nelle proprie abitazioni.
Nacquero così boschetti ornamentali e giardini paesaggistici che, pur ispirandosi alla natura, erano costruiti con intento estetico, selezionando le piante più belle, rare o simboliche.
Il risultato era visivamente affascinante, ma lontano da un vero equilibrio ecologico: questi spazi richiedevano cure costanti e, nella maggior parte dei casi, non erano in grado di fornire una protezione efficace contro l’erosione del suolo, le piogge torrenziali o il vento. In altre parole, non erano boschi “funzionali” dal punto di vista ambientale, ma rappresentazioni ideali, addomesticate.

Il metodo Miyawaki vuole essere quindi una terza via: rigenerare spazi verdi in tempi rapidi, rafforzando la biodiversità e ricreando relazioni ecologiche reali tra le specie vegetali.
Uno degli aspetti che mi ha colpita di più è la centralità della convivenza spontanea tra le piante. La compatibilità ecologica, non solo botanica, è il principio cardine: non basta che una specie sia autoctona, dev’essere anche capace di collaborare, resistere, adattarsi alle altre all'interno dello stesso sistema.
Questa idea risuona profondamente con la mia personale filosofia di giardinaggio: lavorare con la natura, non contro, promuovendo relazioni equilibrate, anche nei contesti artificiali del giardino.

Tuttavia, lo studio del metodo mi ha portata anche a riflettere criticamente. Alcuni studi segnalano che, dopo una decina d’anni, la competizione tra piante può diventare così intensa da causare una mortalità elevata e, in certi casi, persino una riduzione della biodiversità iniziale.
Come in ogni approccio, quindi, servono consapevolezza, contesto, adattamento.

Nel caso del giardino che stavo seguendo (Scopri di più), era evidente fin da subito che sarebbe stato impossibile replicare alla lettera il metodo: gli alberi forniti erano già sviluppati, spesso di grande dimensione, e il tempo a disposizione limitato. Il mio obiettivo è diventato allora un altro: tradurre i principi del metodo in una versione adattata e comunicabile, capace di incuriosire chi lo avrebbe visitato e, magari, invitarlo ad approfondirlo a sua volta.

E così è stato.

 

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