Ricerca sulle comunità vegetali negli ecosistemi mediterranei della Sicilia.

DATA: Maggio 2025 - in corso

DESCRIZIONE BREVE DELL’ATTIVITÀ SVOLTA: Ricerca sul campo delle comunità vegetali della Sicilia, attraverso l’osservazione diretta degli habitat naturali, lo studio della fitosociologia e la documentazione delle specie presenti per applicare questi principi alla progettazione del giardino mediterraneo.

1. Come è nato il mio interesse per la fitosociologia e per la vegetazione mediterranea.

La Sicilia, ricchissima di endemismi e habitat mediterranei, era il luogo perfetto per approfondire ciò che sentivo mio. Leggendo Flora di Sicilia di un giovane botanico siciliano Salvatore Cambria (che poi ha condiviso con me anche il suo dottorato di ricerca sul tema!!), ho incontrato per la prima volta la parola “fitosociologia” e subito l’ho collegata alla progettazione basata sulle comunità vegetali: quei gruppi di piante che spesso crescono insieme e che nei paesi anglosassoni sono molto studiati. Ero spinta dalla curiosità di scoprire su quale principio alcune piante si scelgono nella natura, e altre no.

Così ho iniziato a studiare le associazioni vegetali di sera, per poi andare a cercarle sul campo durante il giorno, esplorando le riserve naturali.

È stato come entrare in un mondo nuovo: complesso, fragile, sorprendente.

2. Il metodo che uso per studiare le comunità vegetali.

Sto sperimentando diversi modi di osservare e capire il paesaggio. All’inizio ero più interessata alle forme estetiche, la luce, i vuoti, i piccoli sentieri naturali tra gli arbusti.

Poi ho sentito il bisogno di classificare ciò che vedevo. Ho scelto un distretto siciliano, studiato tutte le comunità vegetali presenti e preparato cartelle di riferimento da portare sul campo. Annotavo, fotografavo, confrontavo, aiutata anche dalle app di riconoscimento botanico.

Quando individuavo un gruppo di piante indicato nei libri era sempre una piccola festa, anche se si trattava di specie che difficilmente avrei usato in un giardino. Con il tempo ho imparato a “leggere” i paesaggi: riconosco più velocemente la fase ecologica di un luogo e intuisco i ruoli delle piante nel sistema vegetale, pur sapendo che la natura non sempre si lascia incasellare.

Cosa mi sostiene in questa ricerca? La mia crossover blu, le scarpe antinfortunistiche nel bagagliaio, una cartellina con le stampe delle comunità vegetali, uno sketchbook e il mio telefono. Ah, e soprattutto: un’infinita curiosità.

3. Le principali difficoltà sul campo.

Le sfide sono molte, e spesso arrivano quando meno te le aspetti.
Ci sono luoghi che restano inaccessibili per il fango o per la presenza dei cinghiali; scale di legno abbandonate, appoggiate con una pendenza quasi verticale, che diventano l’unica via per risalire una scogliera; orari calcolati male e il ritrovarsi all’improvviso nel buio di una riserva, senza una voce, senza un sentiero chiaro. Sono dettagli che non compaiono nei libri, ma che fanno parte del lavoro sul campo tanto quanto le piante che cerco.

Poi ci sono le frustrazioni “botaniche”: a volte incontro quasi tutti i componenti di una comunità vegetale, ma manca lei, la specie dominante. E senza di lei l’associazione non può essere confermata. È come trovare un puzzle quasi completo, ma con il pezzo centrale mancante. E allora si ricomincia da capo.

Il suolo, poi, è una sfida continua. Non ha mai la nettezza rassicurante delle categorie dei manuali. Una scarpata può essere argillosa e ghiaiosa allo stesso tempo; può contenere minerali inattesi, come un segreto rimasto lì per millenni. A volte nemmeno un geologo sa darmi una risposta.

4. Esperienza sensoriale che vivo sul campo.

La gariga, le praterie, anche le dune sono luce pura: paesaggi aperti, vento caldo e orizzonti immensi.
Nel bosco invece c’è ombra, protezione, un ritmo diverso.

La natura non va idealizzata: una volta, al tramonto, ho perso il sentiero in una riserva. Telefono scarico, nessuno intorno, una piccola volpe morta sulla strada e un albero caduto lungo il percorso. Ho avuto paura. Ho iniziato a correre finché non ho incontrato un ragazzo con un bulldog: l’uscita era a cinquanta metri. Anche questo è natura: accogliente e spaventosa, luminosa e oscura.

5. Comunità vegetali che mi hanno colpito di più.

Una delle associazioni più affascinanti per me è quella tra Ephedra fragilis e Juniperus oxycedrus subsp. macrocarpa. L’Ephedra, verticale e sottile, si rompe con un piccolo sforzo, da cui il nome fragilis. Il ginepro, invece, ha la texture tipica di una conifera, un portamento meno ordinato e una crescita lentissima: circa una decina di centimetri all’anno. Li ho osservati sulle retrodune della riserva naturale “Foce del Fiume Platani”, sulla costa occidentale della Sicilia. Mi affascina come le loro fragilità si siano incontrate: quella di Ephedra è fisica, al tatto, mentre quella del ginepro risiede nella sua lentezza, motivo per cui i ginepreti sono protetti anche all’interno delle riserve.

Con la stessa eleganza, Ephedra fragilis fa parte di un’altra comunità mediterranea, insieme a Pistacia lentiscus, Phillyrea latifolia e Teucrium fruticans, in ambienti diversi come le rupi costiere. In questo caso il lentisco, la filirea e il Teucrium sono più robusti, ma in qualche modo hanno trovato affinità tra loro, creando un equilibrio naturale.

6. Scoperte più importanti nel mio percorso.

La prima grande scoperta riguarda le dune: ecosistemi fragilissimi, dove le piante lottano quotidianamente contro il sale, il vento e le mareggiate, eppure non rinunciano. Stabilizzano la sabbia e proteggono ciò che altrimenti scomparirebbe.

Poi ho scoperto la magia delle zone umide: paludi, laghetti, stagni. Ecosistemi lentissimi, con un’energia completamente diversa dal mare o dai torrenti. Luoghi di riposo per gli uccelli migratori, rifugi temporanei che mi hanno insegnato quanto sia prezioso ciò che spesso è stato considerato “inutile”.

Anche un albero bruciato mi ha dato una lezione: lo vedevo come morto, invece era casa, riparo, nutrimento per altre forme di vita. Anche ciò che appare finito ha un ruolo.

E poi il grande ribaltamento: scoprire che gariga e praterie – paesaggi che idealizzavo – sono spesso stadi degradati della macchia. Capire la successione ecologica ha trasformato il mio sguardo: ogni comunità vegetale prepara il terreno alla successiva, fino alla foresta. La macchia mediterranea stessa, in certi contesti, è lo stadio finale di questo percorso evolutivo.

7. Come sta cambiando il mio pensiero di paesaggista.

Mi ha allargato lo sguardo. Prima ero concentrata quasi solo su gariga e macchia. Ora riconosco aree di transizione, dinamiche ecologiche. Mi chiedo spesso: che cosa rappresenta un giardino all’interno di questa gerarchia vegetazionale? 

Oggi guardo con maggiore responsabilità anche le piante ornamentali. Una specie che prima mi affascinava, come Pennisetum setaceum, ora la considero con cautela: è invasiva, e compete con specie locali come Hyparrhenia hirta.

In questo lavoro indosso due ruoli:
– quello del naturalista, che replica ecosistemi;
– quello del paesaggista, che interviene creativamente.
Sto ancora cercando il punto di equilibrio fra i due.

Hyparrhenia Hirta

8. La mia visione futura.

Fino ad ora ho esplorato una decina delle settantotto riserve naturali siciliane, e ogni visita mi ha lasciato qualcosa.

Il mio futuro non sarà necessariamente legato a questa terra, anche se quest’anno me ne sono profondamente innamorata. Ho trovato la mia nicchia: progettare giardini mediterranei che nascono dagli ecosistemi naturali.

Credo che la progettazione ecologica, basata sulla flora spontanea sia davvero il futuro: spazi verdi che imitano le condizioni naturali, dove le piante possano crescere senza acqua aggiuntiva, concimi, fertilizzanti, proprio come fanno in natura.

Il mio ruolo è leggere il territorio, ascoltare il paesaggio, scegliere le piante giuste e accompagnarli nel periodo di attecchimento. Così il giardino diventa vivo, un organismo autonomo che cresce, respira e cammina sulle proprie radici.

E non escludo che domani mi ritrovi nella Maremma toscana… o in un altro luogo, a continuare le mie infinite scoperte della natura.

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UN'ANAMORFOSI NATURALE. Progettazione. Anno 2025